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I corpi estranei - Conferenza stampa

12/11/2013 | Interviste
I corpi estranei - Conferenza stampa

Conferenza stampa in sala Petrassi per il film I corpi estranei, pellicola italiana diretta da Mirko Locatelli e interpretata da un intenso Filippo Timi presentata oggi in concorso al Festival di Roma.
Il film racconta la storia di Antonio (Timi), arrivato a Milano col suo bambino Pietro, affetto da una grave malattia. Antonio affida alle cure di un ospedale le speranze di salvezza del figlio. Nello stesso reparto si trova anche Jaber (Jaouher Brahim) un ragazzino quindicenne che vive a Milano con un gruppo di connazionali: è emigrato in Europa da poco in fuga dal Nord Africa. L’ospedale è un microcosmo in cui entrambi sono costretti: Antonio per guarire suo figlio, Jaber per assistere l’amico Youssef. E’ l’occasione per l’incontro di due anime sole e spaventate, due "corpi estranei".
Alla conferenza stampa erano presenti il regista Mirko Locatelli accompagnato dalla moglie Giuditta Tarantelli anche sceneggiatrice del film e i due interpreti Filipo Timi e Jaouher Brahim.

La prima domanda è per il regista. Qual è la genesi del progetto e come avete sviluppato l’idea del film?
Mirko Locatelli: “Siamo partiti da un’immagine che mia moglie mi ha sottoposto e che arrivava dalla sua memoria vent’anni fa: un uomo solo con un bambino in braccio in un reparto di oncologia. Quest’uomo era solo un’immagine dalla quale siamo partiti. Abbiamo provato a immaginare una storia attorno a quell’uomo perché spostava l’attenzione, dal punto di vista delle fragilità, dal bambino all’adulto. Abbiamo scoperto che in certi casi i veri malati sono i genitori”.

Giuditta Tarantelli: “Si, in questi casi i bambini hanno tutte le attenzioni mentre i genitori o i parenti vengono un po’ trascurati. I genitori vengono chiamati "malati invisibili" e sono persone che vivono un trauma, come se avessero subito una catastrofe. Mi interessava questo guscio che un papà aveva creato attorno a sé e a suo figlio.

Da questo avete costruito il racconto della storia del papà?
Mirko Locatelli: “Abbiamo voluto fare un film non sul dolore ma sulla fragilità dell’uomo. spostando l’attenzione su un altro tema faccio diventare la malattia un pretesto. In genere tutti abbiamo pudore di fronte alla malattia, parliamo di male incurabile o brutto male invece di tumore, noi volevamo invece sposare l’attenzione sul tema della fragilità umana e qui ci viene incontro il personaggio interpretato da Jaouher Brahim perché è il personaggio con cui Antonio si deve  misurare".

Il personaggio di Antonio è in realtà un uomo fragile, un tipo di ruolo che richiede un lavoro particolare per gli attori?
Filippo Timi: “Vi voglio raccontare un episodio della mia infanzia. Quando avevo sei anni mi portarono a Pisa perché zoppicavo e prima di fare i controlli in ospedale mi regalarono la mia prima scatolina di Lego. In realtà a trent’anni scoprii che mi avevano portato a fare quei controlli perché temevano che avessi un tumore alle ossa. Quando mi misero il camice bianco per farmi dei prelievi dissi a mia mamma che ero pronto per andare in paradiso perché mi avevano vestito da angelo. Leggendo la sceneggiatura di questo film mi sono trovato dall’altra parte. Io per etica penso che sia impossibile recitare quel dolore, soprattutto per un bambino, l’unica cosa che ho provato a fare è chiudere la porta di quel dolore. Non ho potuto recitare niente perché avevo a che fare con un bambino, il bambino doveva essere parte di una tragedia. Questo è il film più documentaristico che io abbia fatto, non mi sono mai preoccupato di recitare. E secondo me è un bell’approccio, a me non piacciono quegli attori che recitano perché vogliono dimostrare di essere i più bravi”.

Dove avete trovato il bambino? E quando uscirà il film?
Mirko Locatelli: “Sono due gemelli che interepretano lo stesso bambino, alla fine non riuscivo a riconoscerli neanche io. Sono due che diventano uno solo.
Il film dovrebbe uscire tra febbraio e marzo”.

Cosa ci potete dire del rapporto del padre con il bambino? Dal film sembra di capire che l’olio balsamico che gli spalma il ragazzo arabo gli faccia abbassare la febbre?
Filippo Timi: “Si sono presi due gemelli per farli apparire a turno e non farli stancare al massimo due ore. Sull’olio io credo alla magia e alle forze occulte”.

Mirko Locatelli: “La consequenzialità tra la scena del rito del ragazzo arabo con l’olio e la guarigione del bambino dalla febbre non vuole essere una tesi. Ovviamente a noi interessava quel gesto, quella mano del ragazzo, un medium per riuscire a entrare in contatto con Antonio perché anche lui ha bisogno di consolazione. Alla fine l’unico modo che trova Antonio per dare consolazione a Jaber è dirgli nella scena finale che la camicia che indossa è bella e gli sta bene”.

Filippo Timi: “Comunque succede una magia perché Antonio è un uomo chiuso e grazie al contatto con quell’olio è costretto ad affrontare una cultura altra, diversa dalla sua. Quindi magia c’è stata, grazie a quel gesto che Jaber fa sul bambino, Antonio è costretto ad aprire gli occhi e si crea un’apertura verso il pregiudizio”.

Giuditta Tarantelli: “Non lo sappiamo neanche noi qual è stata la ragione della guarigione. Ognuno può proiettare e pensare quello che vuole”:

Una domanda per Filippo Timi. A proposito della tua interazione col bambino. Come è stato reggere per la maggior parte del film la storia completamente da solo?
Filippo Timi: “Non me ne sono accorto, non mi preoccupo di quello, quando senti che una storia ti parla è già un regalo. Spendere del tempo, vivere in quella storia e per quella storia, è questo quello che mi occupava totalmente. E’ un caso avere una camera puntata addosso. Stanislawski diceva che non esistono piccoli ruolo ma piccoli attori, è un caso che sei il protagonista”.

Una domanda per Jaouher Brahim sul tuo personaggio che parla un italiano con un accento arabo. Come hai fatto con la lingua?
Jaouher Brahim: “Io so meglio l’italiano che la mia lingua. Ho lavorato sul recupero della lingua con Mirko e ho lavorato per togliere la mia inflessione milanese e tornare alla mia lingua. Poi abbiamo cominciato a strutturare questo italiano un po’ arabizzato. Sono un ragazzo della provincia di Milano, ci vivo da 14 anni, non mi importava di quello che facevo nella vita, poi sono entrato in un Laboratorio Teatrale a Milano. Durante un laboratorio estivo vedevo questo signore con la sua signora (il regista Locatelli con la moglie) e ho pensato che era un signore disabile che si faceva un giro al parco. Dopo lo spettacolo, Mirko ha parlato con una delle guide della scuola, in seguito mi hanno chiamato, il regista mi ha visto e mi ha fatto un provino e mi ha preso per il ruolo di Jaber”.

Un’ultima domanda per il regista. Perché la scelta di confrontare la cultura italiana e quella araba, due culture diverse in un punto di unione di sofferenza?
Mirko Locatelli: “Ci interessava soprattutto l’attenzione sulla fragilità. Ho visto un’intervista a un abitante di un quartiere di Milano che mi ha colpito perché diceva che si sentiva un cittadino in guerra aggiungendo “una guerra che perderemo”. Questa cosa mi ha colpito molto e spaventato un po’. L’idea che un adulto si sentisse in guerra oggi ci ha dato un po’ di spunti. Filippo ci sembrava "un guerriero giusto", con la faccia e la forza giusta”.

Elena Bartoni            

 


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